P. John Dardis viene dall’Irlanda ed è il presidente della conferenza dei gesuiti europei. Gli abbiamo chiesto di condividere le sue riflessioni su come l’esperienza europea potrebbe contribuire alla #GC36, a partire da ciò che è stato fatto nella fase preparatoria. E quali sono le sue impressioni personali su questi giorni.
Per la prima volta nella storia delle congregazioni generali, le conferenze sono state chiamate a svolgere un ruolo attivo prima della sessione plenaria. E’ un modo per riconoscere l’universalità della Compagnia di Gesù, che deve essere integrata nei suoi modi di procedere. Copriamo una grande territorio geografico dall’Irlanda alla Siria e Libano, dalla Svezia al Nord Africa, siamo più di 50. Quando ci siamo riuniti, abbiamo fatto il lavoro che ci è stato chiesto in preparazione alla GC36, ma soprattutto abbiamo iniziato a conoscerci l’un l’altro e a pensare al tipo di problemi che la Compagnia di Gesù si trova ad affrontare oggi.
Come possiamo trovare la nostra unità, a partire dalle nostre differenze? Direi “parlando”. Sembra una cosa banale, ma quando noi gesuiti condividiamo problemi, preoccupazioni, quando mettimao in comune desideri, aspirazioni, superiamo le difficoltà della lingua tramite il desiderio comune di servire Cristo. Qualche volta ci scontriamo per le diversità di opinione? Naturalmente, ma questo è sano; sarebbe pericoloso se rimanessero sottoterranee.
Quando mi domando che cosa gli europei potrebbero portare alla Congregazione, penso in primo luogo alle nostre sfide. Facciamo fatica con le vocazioni, ad esempio. Abbiamo commesso degli errori e questo possiamo condividerlo. Più in generale, credo che, quando guardiamo al XX secolo in Europa, la nostra storia è terribile: il fascismo, lo stalinismo, tutti quegli “ismi” con cui ci siamo scontrati, che ci siamo inflitti a vicenda e abbiamo impostao al mondo. Abbiamo imparato che le ideologie possono letteralmente uccidere milioni di persone. Così, di fronte alle ideologie di oggi, il secolarismo, il consumismo, l’individualismo che feriscono lo spirito umano, potremmo avere qualcosa da dire.
Noi gesuiti abbiamo gli esercizi, che hanno lo scopo di liberare le persone, affinché possano aiutare la gente a trovare Dio e trovare la libertà dagli “ismi” e dalle ideologie.
Dal punto di vista personale, ripensando a quello che abbiamo vissuto da quando abbiamo iniziato, i momenti più commoventi riguardano le dimissioni di Adolfo Nicolás, avvenute in modo così semplice e umile e il discorso di padre Lombardi per ringraziare P. Nicolás. Non erano solo pensieri, era qualcosa di affettivo, qualcosa che ha toccato il cuore di tutti. E la Congregazione stessa non è solo una condivisione di idee; è qualcosa che coinvolge le amicizie e i legami, qualcosa che fa parte della vita dei gesuiti fin dalle origini. Ignazio e i suoi primi compagni erano amici: probabilmente hanno anche litigato, ma hanno condiviso profondamente il loro affetto gli uni per gli altri.
Non siamo un’azienda transnazionale che fa analisi di bisogni, valuta le sfide e le strategie di progettazione. Guardiamo le esigenze del mondo, ma cerchiamo di guardarle con gli occhi della Trinità, lo sguardo misericordioso di Dio. Abbaimo a che fare con la migrazione, la povertà, le situazioni delle persone indigene, la secolarizzazione, la perdita della fede. Se le guardiamo senza lo sguardo della Trinità, ne usciremmo sfiduciati. Ma la Trinità, con la sua compassione, ci sta guardando in modo compassionevole, con i nostri limiti e le nostre risorse. E’ essenziale per noi adottare questa stessa prospettiva. Sì, stiamo cercando di stare con Ignazio, con Francesco Saverio, con Pietro Favre e con la Trinità. Forse suona un po’ pretenzioso, ma si tratta di un atteggiamento di preghiera verso il mondo e verso noi stessi: questo è ciò che mi si muove durante l’intera esperienza della Congregazione.