Il ministero petrino di un gesuita: una sfida positiva per la Compagnia
Il Papa è entrato con naturalezza come un padre gesuita tra gli altri. Ma il suo vestito bianco ha marcato una differenza visibile che non ha tolto però la percezione che c’è tra noi e lui un legame profondissimo. Abbiamo cominciato pregando.
Un evento storico: questo è stato l’incontro della Congregazione Generale dei Gesuiti con Papa Francesco. Il primo ad averne consapevolezza è stato proprio il padre Generale, Arturo Sosa, che aveva chiesto ai gesuiti di prepararsi spiritualmente a questo incontro. Non era mai accaduto nella storia che ci fosse un Pontefice gesuita e dunque che un Papa gesuita intervenisse a una Congregazione Generale della Compagnia di Gesù. Il suo discorso dunque assume per la Compagnia un valore davvero forte, speciale. Ma, prima ancora del suo discorso, è la stessa presenza del Papa ad avere un valore estremamente significativo, anche per le sue modalità inusuali: una udienza nella stessa Aula della Congregazione, che si è protratta per ore di incontro libero e spontaneo in un clima aperto e disteso, come forse non avveniva da molto tempo.
La Compagnia sta pure prendendo maggiore consapevolezza che il ministero petrino oggi viene svolto da una persona che è stata formata nel suo grembo e alla sua spiritualità, quella del discernimento. Molti tratti del pontificato attuale, del resto, sono comprensibili nelle loro radici solo considerando la spiritualità nella quale il Pontefice è cresciuto umanamente e spiritualmente. Dunque Francesco rappresenta per la Compagnia stessa una sfida positiva, e un motivo specifico di preghiera, di riflessione e di assunzione di responsabilità.
Un ritratto «mosso» della Compagnia
Il Papa ha cominciato il suo discorso dipingendo un ritratto della Compagnia. Che non è una «natura morta», ma un quadro sfaccettato e in movimento. La stessa Compagnia — ha detto — è «in fieri», in divenire. Questo la rende sempre flessibile, liberamente elastica. L’ha subito inquadrata — anche alla luce delle affermazioni dei suoi predecessori — in cammino come persone libere e obbedienti. E si cammina solamente se davvero si scende in strada. La Compagnia non può balconear, come una volta disse: non può guardare la realtà da un balcone, studiarla, analizzarla e, sempre dal balcone, sentenziare. Deve entrarci dentro, stare in mezzo ai crocevia della storia, alle trincee sociali, lì dove vi è il «confronto tra le esigenze brucianti dell’uomo e il perenne messaggio del Vangelo», come disse Paolo VI. Riflessione, contemplazione e azione vanno sempre insieme se non si vuol essere ideologici.
Non obiettivi fissi ma orizzonti mobili
Ma non basta camminare. Dove si va? Nel suo discorso alla Congregazione Francesco ha implicitamente messo in guardia da tenere obiettivi troppo chiari e distinti da pianificazione aziendale. L’orizzonte che orienta il cammino è la Gloria di Dio che è sempre maggiore, ha detto. Cioè: la Compagnia deve camminare avendo davanti a sé un orizzonte che cambia in continuazione e si ingrandisce. Il ritratto della Compagnia dipinto dal Papa è dunque dinamico, «incompleto» in se stesso e «aperto». I gesuiti sono chiamati non a «raggiungere obiettivi» come un tiro a segno, ma a camminare, accompagnando evangelicamente i processi in cui sono coinvolti gli esseri umani, e avendo come linea d’orizzonte la gloria di Dio. Accompagnare processi non conquistare spazi. È, in sostanza, camminare col Signore Gesù: siamo chiamati a camminare con lui e ad andare dove lui va. E a volte noi non lo sappiamo neanche dove sta andando: lo scopriamo camminando, pronti a cambiare con lui direzione, mosse e metodi. Solo se la Compagnia cammina con Gesù verso il suo orizzonte riesce a a comprendere se stessa. La Compagnia è mobile. Per questo per il gesuita ogni luogo del mondo è casa. Se non lo è allora diventa «funzionalista» e rigida; si ingarbuglia, cioè comincia a concentrarsi girando vorticosamente su se stessa ma alla fine inutilmente.
Una sola «priorità»: il discernimento
Questo camminare non è però un cammino né comodo né solitario. Non è neanche un cammino di ricerca di sé, neanche della propria salvezza personale. Francesco ci dice che camminare nei termini di Ignazio significa innanzitutto «procurare con tutte le forze d’aiutare alla salvezza e perfezione delle anime del prossimo» (Ex 1, 2). Il Papa sembra privilegiare la «Formula dell’Istituto» originaria, quella di Paolo III del 1540, Regimini militanti Ecclesiae, che pone come scopo primo della Compagnia quello di occuparsi «del progresso delle anime nella vita e nella dottrina cristiana». Dunque il Papa non affida alla Compagnia obiettivi o preferenze se non il «progresso delle anime». Non fornisce elenchi di opere da svolgere o obiettivi da raggiungere o territori da «conquistare». Anzi dice semplicemente che la Compagnia «sta dove deve stare». Pure con audacia profetica e diplomatica. E cioè dove? La risposta è che il contenuto della missione è frutto di un discernimento continuo e sempre in divenire. Il centro resta la «Formula dell’Istituto»: il resto appartiene alla storia, al divenire, alle circostanze. La Compagnia vive e deve vivere tensioni, è inquieta. Francesco vuole toccare il cuore pulsante, il nucleo caldo e potentissimo del carisma della Compagnia, la «Formula» appunto: toglie gli strati che lo proteggono e lo mostra ai gesuiti per ricordare l’essenziale. Il Papa parla di un ritorno al cuore, anzi di un «fuoco». E cita uno dei primi gesuiti, p. Jeronimo Nadal, che diceva: «la Compagnia è fervore». «Fervore» deriva dal latino fervor, cioè «ebollizione».
Tre modi di fare un passo avanti
Fatto questo, il Papa fornisce pure tre «modi di procedere» per la missione che si riassumono in tre parole: «consolazione», «compassione» e «sentire con la Chiesa». È da notare l’espressione usata da Francesco: possiamo fare un passo in avanti. Non c’è l’invito a fare il «salto in lungo», ma a fare un passo alla volta. Ma sempre adelante, in avanti. C’è un progresso al quale siamo sempre chiamati e che è da fare con umiltà e decisione. Ecco i tre «modi»:
1. Consolazione. Viviamo in un mondo ferito e anche il gesuita è un uomo ferito. Il mondo spesso è mosso dalla paura e reagisce prestando l’orecchio alle desolazioni e ai timori. Per Francesco solo se sperimentiamo la forza risanatrice della consolazione nel vivo delle nostre piaghe — sia come persone sia come Compagnia — potremo svegliarci dal torpore, camminare ed aiutare gli altri. Dunque dobbiamo chiedere —«insistentemente», dice il Papa — la consolazione. Lo stato abituale di un gesuita deve essere di consolazione. Questa è l’esperienza che Francesco ci invita a fare, dunque: a lasciarci consolare da Dio e a vivere il nostro ministero come un ministero di consolazione portando nel mondo riconciliazione, giustizia, misericordia. E in questo Francesco stesso è stato un modello parlando nei suoi testi magistrali più alti di gaudium, laudatio e laetitia, che sono per lui sinonimi di consolazione. E una aggiunta: per il Papa «l’attitudine umana più vicina alla grazia di Dio è l’umorismo».
2. Compassione. Il Papa ci chiede di lasciarci commuovere dal Signore crocifisso e a sentirci amati da lui stando ai piedi della croce. È questa esperienza che ci porta a essere sensibili al dolore dell’umanità, a vivere la compassione. «Dove c’è un dolore c’è la Compagnia», diceva padre Arrupe. Solo se sperimentiamo la forza risanatrice della compassione di Gesù crocifisso possiamo essere guariti e guarire gli altri. Questo ci spinge all’impegno per la giustizia, a stare con i poveri e dalla loro parte.
3. Discernimento «sentendo» con la Chiesa. Il Papa ci chiede, infine, di procedere facendo il nostro discernimento «sentendo con la Chiesa», nostra Madre. Ci sono tanti modi per riformare la Chiesa, ma alcuni di questi sono modi anti-ecclesiali, frutto di «spirito cattivo». Invece Francesco dice che non basta riformare la Chiesa perché potrebbe essere una operazione ideologica e dunque «clericale». Bisogna farlo con «spirito buono», frutto del discernimento, in maniera «ecclesiale». Il gesuita deve essere dentro la Chiesa che vive nella storia non in quella delle nostre utopie o dei nostri desideri. E ciò a volte comporta pure il farsi carico della croce e sperimentare umiliazioni. Bisogna anche ascoltare tutte le critiche, anche quelle malevole, e discernere. Mai bisogna chiudere le porte. Non si tratta di giustificare posizioni discutibili, ma di lasciare aperto lo spazio a ciò che lo Spirito sta facendo o che farà a suo tempo. Il gesuita agisce dentro la Chiesa fidandosi dell’azione dello Spirito al suo interno.
Compagni in cammino…
Alla fine di questo discorso che tocca le fondamenta roventi del carisma della Compagnia, Francesco si rivolge a Maria con l’appellativo di «Nostra Signora della Strada. La Compagnia non è solamente un gruppo di uomini che hanno gli stessi ideali, ma un gruppo di amici che sono sulla strada in cammino con Gesù, un passo alla volta.
Alla fine del nostro incontro mi sono venute in mente le parole di una lettera di Ignazio in occasione dell’elezione a Pontefice di Marcello II nell’aprile 1555. Sono parole di preghiera: «A Dio N. S., che ha voluto dare alla sua Chiesa un tale capo, piaccia aumentare in lui un spirito grande, come è necessario per un tanto alto ministero».